-- La mostra riapre parzialmente da mercoledì 7 settembre. Ingresso gratuito fino al 18 settembre. Le due sale a sinistra dell'ingresso in Palazzina dei Giardini resteranno chiuse a causa di problemi tecnici dovuti al maltempo.Le visite guidate riprendono regolarmente da sabato 10 settembre alle ore 17:00. --
Nata nel 1972 a Johannesburg e oggi residente a Berlino, Candice Breitz è artista tra le più note a livello internazionale e ha esposto le sue video installazioni in mostre personali e collettive nei musei di tutto il mondo, partecipando alle biennali più prestigiose. Nel 2017 ha rappresentato il Sudafrica alla 57° Biennale di Venezia. A cura di Daniele De Luigi, l’esposizione presenta tre importanti installazioni di grandi dimensioni di Breitz, Love Story (2016), Digest (2020) e Labour (2017, ancora in corso), riflettendo sul ruolo cruciale che lo storytelling gioca nella costruzione della realtà vissuta e offrendo la possibilità di realtà future alternative. La mostra offre ai visitatori una momentanea via di fuga dall’accelerazione temporale che viviamo quotidianamente, tipica dell’economia dell’attenzione, allungando e deformando il nostro rapporto con il tempo, e offrendo rifugio dal vortice di notizie che ci avvolge e dai continui scroll nei social media, divenuti il nostro strumento di comprensione e misura del mondo.
Love Story, che si compone di una proiezione cinematografica e più di venti ore di interviste molto intime, ci chiede di considerare la perdita di sfumature ed empatia che si verificano quando storie complesse vengono condensate ed abbreviate per servire tempi di attenzione sempre più brevi. Strutturato in una video installazione a sette canali esplora, articolandosi in un duplice spazio, le condizioni attraverso le quali si produce il sentimento di empatia. Evocando il tema della crisi globale dei rifugiati, l’opera si sviluppa grazie ai colloqui con sei persone che hanno lasciato, per differenti motivazioni, la propria terra di origine. Sono Sarah Mardini, sfuggita dalla guerra in Siria, José Maria João, un ex soldato bambino angolano, Mamy Maloba Langa, sopravvissuta a uno stupro nella Repubblica Democratica del Congo, Shabeena Saveri, attivista transgender indiana, Luis Nava Molero, dissidente politico del Venezuela e Farah Abdi Mohamed, giovane ateo somalo. Nella prima sala frammenti delle interviste appaiono rimessi in scena dagli attori di Hollywood Alec Baldwin e Julianne Moore e montati, mentre nel secondo spazio le interviste vengono proiettate nella loro interezza. Lasciando lo spettatore in sospeso tra il crudo racconto originale di persone che rimarrebbero senza volto e voce nella narrazione mediatica, e una drammatizzazione fittizia e accessibile realizzata coinvolgendo attori di Hollywood, Love Story ci interroga su cosa attrae e focalizza la nostra attenzione, sfruttando l'ipervisibilità di Moore e Baldwin per amplificare racconti che altrimenti potrebbero restare nell’ombra. Allo stesso tempo, invita a riflettere sull'insensibilità di una cultura mediatica satura nella quale una forte identificazione con personaggi di fantasia o famosi corre in parallelo a una diffusa mancanza di interesse verso le persone vere che affrontano le avversità del mondo reale.
Digest è una installazione composta da 1001 videocassette dipinte, le cui cover si presentano adornate da un singolo verbo estratto dal titolo di un film in circolazione durante l’era dell’home video. Il verbo dipinto è mantenuto nel font originario della copertina del VHS, mentre il resto della custodia è stato ricoperto da un motivo astratto in acrilico nero. Ad esempio, il verbo “to Die” è tratto dal famoso blockbuster Die Hard del 1988, mentre “to do” è citato nella copertina di Do the right thing del 1989. Anche l’esposizione dei nastri rievoca quella dei negozi di video-noleggio, mentre il vero contenuto delle cassette resterà per sempre nascosto, lasciando i visitatori ad immaginare quale film racchiudano. Il progetto Digest, completato da Candice Breitz nel corso della pandemia, deve la propria struttura seriale alla storia narrata ne Le mille e una notte ed è un omaggio alla narratrice proto-femminista Sharazād, milleunesima moglie del sultano Shahrayar, in grado di salvarsi da una morte certa grazie alla propria straordinaria capacità di tessere intrecci narrativi. In seguito al tradimento della prima moglie, il sultano decide, in un impeto di misogino disprezzo, che avrebbe sposato una vergine ogni giorno, decapitando sistematicamente ad ogni alba la moglie precedente, negandole così la possibilità dell’adulterio. Sharazād elude il terribile destino allettando il marito con una storia che è troppo lunga per essere completata entro l’alba e proponendo, nelle mille notti che seguono, altrettanti finali sospesi, generando una suspense narrativa che diventa un mezzo di sopravvivenza.
Laddove Love Story e Digest ci esortano a rallentare, Labour propone piuttosto un completo capovolgimento del nostro rapporto con il tempo, fondendo i temi di nascita e morte per sfidare duramente il prevalere della mascolinità violenta a livello di leadership politica. Allestito nella sala centrale della Palazzina dei Giardini, Labour è una installazione a sei singoli canali video, tratti da un’opera ancora in progress. L’artista ha ripreso in video una serie di nascite, con un crudo stile documentaristico e accennando all’estetica da peep show di opere come L’Origine du monde, di Gustave Courbet (1866) e Étantdonnés (1966) di Marcel Duchamp. Delineando un’utopica agenda femminista enunciata da un fittizio “Decreto matriarcale”, Breitz reimmagina il potere incarnato che scorre attraverso le madri nel momento del parto come una risorsa che può essere sfruttata per altri scopi, come ad esempio la sostituzione di leader autoritari che hanno usato il proprio potere per nuocere all’autonomia delle donne (e non solo) sul proprio corpo. L’artista ci invita perciò a rivivere le nascite al contrario, osservando il neonato che dalle braccia della madre viene lentamente risucchiato nel grembo materno: facendo collassare il filmato verità nell’invenzione narrativa, Labour crea una connessione tra le distopie riproduttive a lungo evocate dalle femministe nella finzione e la realtà quotidiana vissuta dalle donne.