Michelangelo e il Novecento

19.06.14 -
19.10.14

La Palazzina dei Giardini ospita la sezione modenese della mostra promossa dalla Fondazione Casa Buonarroti di Firenze e dalla Galleria civica di Modena in occasione del 450° anniversario della morte dell’artista.

Mentre a Firenze sono state raccolte opere che vanno dagli inizi dello scorso secolo agli anni Settanta, Modena ospita i risultati più recenti dell’influenza esercitata da Michelangelo sugli artisti contemporanei, giungendo fino ai nostri giorni.

A cura di Emanuela Ferretti, Marco Pierini, Pietro Ruschi

La Palazzina dei Giardini ospita la sezione modenese della mostra promossa dalla Fondazione Casa Buonarroti di Firenze e dalla Galleria civica di Modena in occasione del 450° anniversario della morte dell’artista.

Mentre a Firenze sono state raccolte opere che vanno dagli inizi dello scorso secolo agli anni Settanta, Modena ospita i risultati più recenti dell’influenza esercitata da Michelangelo sugli artisti contemporanei, giungendo fino ai nostri giorni.

Il percorso espositivo si apre con Merciful Dream (Pietà V) di Jan Fabre, realizzata in marmo bianco di Carrara, che riproduce la celeberrima Pietà del 1499 in scala 1:1. L’iconografia, che prevede il volto della Vergine trasformato in teschio e quello del Cristo sostituito dal ritratto dell’artista, apparve ad alcuni, durante la prima presentazione veneziana del 2011, irrispettosa, quando non addirittura blasfema. Al contrario, sembra configurarsi come una toccante meditazione sulla morte, rappresentazione quanto mai umana del dolore materno, della disperata richiesta di poter barattare la propria morte con quella del figlio.  
Anche Kendell Geers riprende un celebre modello di Michelangelo rispettandone le dimensioni, ma il suo David (Relic 2, 2002) è costituito da una materia affatto diversa, che allude ironicamente al colore del materiale originale, pur contraddicendone ogni altra qualità: il polistirolo, sul quale è stato applicato nastro da cantieri bianco e rosso. L’artista segnala con forza la trasformazione dell’opera in feticcio del consumo di massa, in icona kitsch, quella che i protagonisti di Audience di Thomas Struth – i visitatori della Galleria dell’Accademia, sudati, stanchi, spesso segretamente annoiati – corrono a visitare, talvolta, come scrive Marco Pierini in catalogo, quasi “per un pregiudiziale senso del dovere, per ottemperare a un rito collettivo di cui appaiono ormai più vittime che officianti” che per scelta consapevole.
L’Esclave (d’après Michel-Ange), (S 20) di Yves Klein proietta al contrario la statua michelangiolesca in una dimensione altra, eterea, che sembra rinnegare i valori stessi della scultura. Il blu profondo di cui è intriso il piccolo gesso sottrae l’opera a ogni contingenza, ne stempera la consistenza materiale, ne amplifica il portato concettuale. 
Segue una stanza dedicata a Robert Mapplethorpe, con immagini che ritraggono celebri modelli del fotografo americano:AjittoThomas Lisa Lyon. La loro nudità scultorea e muscolosa, ritratta in pose di plastico e rigorosissimo equilibrio formale, rimanda esplicitamente alla fisicità dei corpi dipinti, scolpiti e disegnati dal Buonarroti, artista che Mapplethorpe – definito in una poesia di Patti Smith proprio come The boy who loved Michelangelo – prese a modello ideale per il suo lavoro. È pertanto assieme ai suoi scatti in bianco e nero che si è scelto di collocare il primo foglio michelangiolesco in mostra, un torso virile a inchiostro risalente al 1524-1525.
Una piccola sezione, infine, è dedicata alla restituzione dell’opera di Michelangelo attraverso la fotografia. Appartengono alla collezione della Galleria civica di Modena sia l’immagine della statua del Mosè a San Pietro in Vincoli, (Roma) di Ico Parisi, datata 1958, sia il nutrito gruppo di foto di Aurelio Amendola dedicato alla Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze, tratte dal volume "Un occhio su Michelangelo" con il quale il fotografo vinse, tra l’altro, il Premio Oscar Goldoni nel 1994 a Modena. I pregnanti scatti di Amendola, capaci di esaltare tanto la differente texture delle superfici quanto la tornitura delle forme, convivono con l’altro disegno di Michelangelo che rappresenta proprio Studi di monumenti tombali per la Sagrestia Nuova (1520 ca.). 
La sezione si chiude con la Pietà Rondanini (2011) di Gabriele Basilico, immagine dove la scultura, immersa nell’ambiente in penombra, appare investita da una luce diretta e forte che la sgrava di peso, di consistenza materiale, e ne amplifica l’isolamento nello spazio (enuclea quindi, in maniera figurata, la solitudine di Maria e del Cristo).
Il congedo dalla mostra è affidato all’estremo capolavoro di Michelangelo Antonioni, il cortometraggio intitolato Lo sguardo di Michelangelo (2004), nel quale per la prima volta il regista si trova anche davanti alla macchina da presa, protagonista di un dialogo muto, ma serrato, esclusivo e totalizzante con il Mosè. Lo sguardo di Michelangelo (Buonarroti) procede dagli occhi del Mosè, lo sguardo di Michelangelo (Antonioni) dalle lenti degli occhiali. Lo spettatore, grazie al frequente uso della ripresa in soggettiva, ha l’impressione di osservare il complesso scultoreo con gli occhi di Antonioni e quest’ultimo attraverso lo sguardo del Mosè, ma non riesce a inserirsi nel dialogo in corso, la cui intimità non è dato violare.

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